CAPUTI JAMBRENGHI

Le origini della famiglia Caputi sono uguali a quelle delle più illustri e cospicue dell’ex Reame di Napoli; infatti essa risplendeva di luce purissima nella città partenopea verso il Milleduecento come risulta dalle storie dell’antico Regno delle due Sicilie e come rilevasi da un preciso riferimento: quello cioè riguardante la invidia che, per la sua alta posizione sociale, circondò, all’epoca dell’Imperatore Corrado IV, la famiglia Caputi. Fu appunto in virtù di questo stato d’animo che l’Imperatore s’indusse a bandire da Napoli gli esponenti di tale Casa che, più tardi, e dopo la morte di Corrado IV, rientrarono nella Capitale del Regno. 

Nella storia dell’ex Reame di Napoli troviamo poi ricordato il nome illustre di Pietro Caputi, che, fedele al suo Sovrano Carlo d’Angiò, lo seguì in Grecia ove partecipò con Lui all’espugnazione di Morea, distinguendosi per atti di valore che gli diedero fama e stima universali. 

In questa storia si legge ancora il nome di Gualtiero Caputi che nel 1268, Sindaco della città di Napoli pel sedile di Porto, insieme con Matteo Brancaccio e con altri nobili napoletani, pagò 4000 oncie d’oro a Giovanni Cossavach del danaro che era custodito nel Castello attualmente detto dell’Ovo avendo il Re ordinato ad alcuni suoi famigliari che « lo tenessero pel suo conto ». Troviamo ancora Lorenzo, Francesco e Sergio, creati Cavalieri Aurati nella solennità della Pentecoste del 1272. 

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Caputi si stabilirono in seguito anche a Cosenza, Tropea, Catanzaro e Ruvo. 

Matteo fu il capostipite del ramo di Ruvo ed ai suoi figli Domenico, Muzia ed Angelantonio, il Re Filippo Il concesse, nel 24 aprile 1598, il Diploma del titolo di Nobili estensibile ai loro discendenti legittimi di entrambi i sessi. 

Il lustro della famiglia Caputi crebbe man mano che la famiglia incrementò le sue ricchezze e andò imparentandosi con le più nobili famiglie di nostra Terra. Testimonianza evidente di questa ricchezza non soltanto materiale ma anche spirituale è il maestoso Palazzo seicentesco eretto dai Caputi nel cuore di Ruvo e contesto di attrattive architettoniche ed ornamentali ed ospitante una pregevole raccolta di vasi antichi messo insieme da secoli. 

Fra le personalità di questo ramo Ruvese della famiglia Caputi bisogna ricordare Muzioche si rese benemerito per pubbliche attività e che fu ricordato dai suoi concittadini riconoscenti con l’intitolazione al suo nome di una delle più importanti vie della vecchia Ruvo; Vincenzo che fu Vescovo di Andria e di Sansevero, Francesco che accrebbe sensibilmente il « Beneficio de’ Caputi », con atto di donazione pel notar Francesco Saverio Simia del 15 dicembre 1769, e Matteo che governò la città di Ruvo e ne amministrò la giustizia con vigile senso di equilibrio e con altissimo sentimento. 

Nel 1821, venendosi ad estinguere con Domenico Antonio Jambrenghi di nobilissima famiglia di Minervino, l’illustre casato, fu invocato dalla Gran Corte Civile di Trani un provvedimento speciale col quale Tommaso Caputi, figlio al fratello della moglie, potesse aggiungere al suo cognome quello dello zio materno. S’inizia appunto con una sentenza del 5 gennaio 1821 l’innesto del cognome Jambrenghi a quello dei Caputi.

Tommaso Caputi Jambrenghi morì nel 1883 e nel testamento che nominava suo erede universale il nipote Francesco, gli faceva, infatti, obbligo di aggiungere al cognome Caputi quello di Jambrenghi.

Questa famiglia si è molto distinta nella trasformazione della terra. Essa infatti introdusse nelle sue terre nuovi sistemi di coltivazione per l’agro Ruvese, ed in grazia appunto dell’assidua e competente cura avuta per le agricole cose dal predetto don Francesco, già dal 1870 s’iniziò a Ruvo la coltivazione dell’uva «Prunesta» che ebbe ed ha grande diffusione all’Estero per la sua resistenza ai viaggi e per la sua gustosità. 

Quest’uva si chiama «Prunesta» di Ruvo, ma ben più propriamente dovrebbe nomarsi «Prunesta Caputi-Jambrenghi» perchè fu appunto uno di tale casato che, attraverso sforzi ed esperimenti, riuscì a selezionarla e ad introdurla su vastissima scala. 

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I Caputi si tramandarono di padre in figlio non soltanto questo attaccamento alla terra, bensì la passione per l’ allevamento di razze equine ed ovine, riuscendo anche in questo campo ad avere sorprendenti e mirabili affermazioni. 

Anche oggi si ammirano nelle loro proprietà giovani piantate di vigneti e di mandorleti che formano la risorsa della popolazione rurale ruvestina. 

Da Francesco Caputi – Jambrenghi nacquero tre figli: Vincenzo che si sposò con la nobile signorina Lucrezia Sylos LabiniGiuseppe che è rimasto scapolo, e Salvatore che si sposò con Anna Sylos Labini, sorella della cognata, da cui ebbe cinque figli, di cui tre maschi e due femmine. 

Vincenzo Caputi Iambrenghi è passato recentemente a miglior vita. Chi ebbe la ventura di conoscerlo non può dimenticare la di lui gentilezza del tratto, la di lui semplicità di vita, il di lui attaccamento alla famiglia, la di lui elevatezza spirituale. 

Tolto innanzi tempo all’amore della sua gentile ed affezionata consorte e dei suoi figli tra cui parecchi egli aveva avviato agli studi classici, alimentandoli delle sue stesse virtù native, ha lasciato un’impronta indelebile del suo silenzioso e fecondo passaggio sulla terra. 

Di queste virtù sono riprova viva e palpitante la bontà e la gentilezza di queste sue creature, le fioriture di compianti e di riconoscenze sorte dopo la sua morte, il retaggio di nobiltà spirituale alitante ancora e sempre nella casa orbata del suo Capo. 

Egli sopravvive infatti nella gentilezza di sentimento e di tratto dei suoi congiunti, nelle opere di bene che hanno contesta la sua non lunga esistenza.

Tratto da “Puglia d’Oro”


L’edizione originale è disponibile nel volume “Puglia d’Oro” pubblicato dalla Fondazione Carlo Valente onlus con Edizioni Giuseppe Laterza srl, come ristampa dei tre volumi curati negli anni 1935, 1937 e 1939 da Renato Angiolillo.

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